di Claudia Viggiani
Mi piace il Campidoglio, e quando vado mi siedo sempre nello stesso punto, ai piedi della statua raffigurante il Tevere.
Amo posizionarmi qui per cogliere al meglio la luce che, nelle mie ore preferite, rende l’area un palcoscenico di bellezza.
È la piazza del Comune di Roma, ed è così tanto elegante ed accogliente da sembrare un salotto.
A volerla così fu Michelangelo Buonarroti, al quale nel 1537, papa Paolo III Farnese (1534-1549), lo stesso per il quale portò a termine il Giudizio Universale in Cappella Sistina, aveva affidato il progetto urbanistico-architettonico di riqualificazione del Campidoglio e dei suoi edifici. La piazza è una forma di Michelangelo, è la rappresentazione di una sua idea che noi vediamo attuata e che, come la grande cupola di San Pietro, l’artista non vide finita, perché morì prima della sua conclusione.
Cerco nella mia memoria almeno un’altra piazza al mondo che possa vantarsi di essere stata concepita, al tavolino, da un artista simile, della medesima portata del maestro indiscusso del Rinascimento italiano – genio della scultura universale, architetto attento e talentuoso pittore, tra i più grandi di tutti i tempi – e non me ne viene in mente neanche una.
Michelangelo era stato chiamato per risistemare uno spazio architettonico – divenuto in quasi duemila anni caotico e incoerente – che potesse essere all’altezza della celebre statua equestre di Marco Aurelio che il papa Farnese aveva deciso di trasferire dal Laterano in Campidoglio.
Il Campidoglio è uno dei sette colli di Roma ed è caratterizzato da due alture, l’Arx e il Capitolium, sulle quali un tempo sorgevano due dei massimi templi di Roma antica: rispettivamente il tempio di Giunone Moneta, votato nel 344 a. C., e quello di Giove Ottimo Massimo, inaugurato nel 509 a.C. e dedicato anche a Giunone e Minerva.
L’area occupata dalla piazza corrisponde alla sella che univa queste due sommità ed era detta Asylum, spazio destinato, secondo la tradizione storiografica e fin dai tempi di Romolo, ad accogliere gli esiliati.
Pare poi che sul colle capitolino sorgessero anche altri santuari minori, uno dei quali, quello dedicato a Veiove, è ancora visibile all’interno dei Musei Capitolini, verso il Foro Romano.
Sono seduta esattamente alle pendici del Palazzo Senatorio, costruito sui resti del Tabularium, l’archivio di stato di Roma, innalzato nel I secolo a.C., per incarico del console Quinto Lutazio Catulo.
Mi siedo qui perché questo palazzo è l’unico che Michelangelo vide ultimato nonostante il suo progetto riguardasse tutta la platea capitolina. Mi sembra di essere più vicina a lui.
La mia mente fa un salto nel tempo e penso a quando, tra il 1143 e il 1144, una rivolta antipapale guidata dai baroni romani portò il popolo ad occupare il Tabularium, divenuto così la sede simbolica della nuova “Era del Senato”, o del Comune di Roma, nato ufficiosamente nell’ottobre del 1144.
Questo primo Palazzo Senatorio, costruito tra la metà del XII secolo e l’ultimo quarto del XIII secolo sulle rovine dell’antico archivio di stato, fu successivamente rinforzato e protetto da torri, mura merlate e un ponte levatoio, andati distrutti nel tempo.
Michelangelo lo restaurò, inglobandone i resti antichi e medievali, e progettò la maestosa scalea a doppia rampa posta alle mie spalle.
Mi giro per guardarla. Poi guardo il cielo blu sopra di me e sopra Roma.
Il mio sguardo corre veloce su tutte le facciate dei palazzi, ugualmente belle e armoniose.
Mi piacciono l’alternanza dei colori giallo e travertino dei prospetti e le statue antiche che incorniciano la piazza e decorano i cornicioni.
Chi arriva dalla cordonata di Michelangelo vede le statue dei Dioscuri, provenienti dall’Aedes Castoris et Pollucis in Circo, i “Trofei di Mario“, rimossi dalla grande fontana monumentale sull’Esquilino, e le statue di Costantino e del figlio Costantino II, qui trasferite dalle Terme di Costantino sul Quirinale, poi distrutte.
I moderni lampioni di ghisa, sistemati a cerchio intorno alla piazza, ne enfatizzano la forma e donano all’insieme una policromia leggera.
Cammino verso la cordonata michelangiolesca e giro intorno alla base della statua di Marco Aurelio, copia dell’originale che si trova all’interno dei Musei Capitolini.
Mi fermo per guardare da lontano Palazzo Senatorio sul quale si erge la torre campanaria progettata, alla fine del XVI secolo da Martino Longhi il Vecchio, che vi fece porre, a mo’ di parafulmine, la statua apotropaica di Minerva.
Penso ai lunghi anni di studi che Michelangelo dedicò a questo luogo e una fitta mi colpisce allo stomaco: è l’emozione che prende il sopravvento sul pensiero. Il grande artista e poeta che ha reso immortale l’arte italiana, ha passeggiato qui, chissà quante volte. Sarà stato felice oppure no?
E mentre scendo i gradini per tornare al motorino, sorrido a Stendhal e penso che ho appena manifestato i sintomi della sua sindrome dalla quale, credo, sia impossibile che io guarisca.