di Claudia Viggiani

Alla Centrale Montemartini è esposta una scultura che mi piace moltissimo.
È sicuramente una di quelle opere che quando la intravedi, passando, ti cattura, ti blocca e ti costringe a tornare sui tuoi passi per guardarla meglio. È Pothos, la rappresentazione del “sentimento che scioglie le membra”; è il desiderio di qualcosa che oramai è lontano, perduto, forse, per sempre.

Pothos

Pothos, II secolo, Centrale Montemartini, Roma

In realtà le sculture visibili sono due, una accanto all’altra. Il soggetto è lo stesso e la posa quasi identica; una statua è però senza testa e, ad entrambe, mancano le braccia.
I due Pothoi, risalgono alla prima metà del II secolo e sono copie romane dell’originale di Skopas, databile al 330 a.C. circa, conosciuto grazie ad una quarantina di repliche di epoca romana ed ellenistica, alcune delle quali per la prima volta riconosciute come copie del Pothos di Skopas da Adolf Furtwängler nella seconda metà dell’Ottocento.
Skopas, nato intorno al 390 circa a. C., probabilmente figlio dello scultore Aristandro, è uno degli artisti greci più famosi, citato da Pausania e Plinio e ricordato come l’autore sia di un complesso statuario, con Afrodite e Fetonte, a Samotracia, sia di un gruppo scultoreo realizzato per il tempio di Afrodite a Megara, città dell’Attica, nella Grecia orientale, raffigurante le tre diverse personificazioni dell’amore, generato da Afrodite e manifestato dai suoi tre figli: Eros, l’Amore come passione istantanea e assoluta, Himeros, l’Amore come desiderio pungente e infine Pothos, l’Amore come nostalgia e rimpianto.
Le due copie di Pothos della Centrale Montemartini sono sicuramente tra le più belle a noi giunte quasi completamente intatte. Furono rinvenute nel 1940, durante il medesimo scavo archeologico di una Domus di età adrianea, nei pressi della moderna via Cavour.

Pothos

Pothos, II secolo, Centrale Montemartini, Roma

Le sculture facevano parte di un notevole apparato decorativo scultoreo ancora perfettamente conservato nella dimora al momento della sua scoperta.
L’edifico doveva essere una lussuosa casa signorile, costruita nel II secolo d.C. sulle pendici del Colle Cispio, articolata intorno ad un grande peristilio, il portico con colonne che cingeva il giardino. In una delle grandi sale di rappresentanza, lungo il breve corridoio, aperto subito dopo la porta, erano poste le due statue di Pothos, precedute da un’altra coppia di sculture raffiguranti un Generale e un Satiro, collocate invece ai lati dell’ingresso. Le quattro opere in marmo pregiato, ora esposte nella Sala delle Caldaie, di dimensioni di poco superiori al vero, erano poste su piedistalli ed accompagnavano gli ospiti nel cammino che conduceva al vasto giardino con fontane.
Per gli architetti romani erano molto importanti la fuga prospettica e l’impatto estetico che le statue potevano avere sulla natura circostante, fosse anche solo essa collocata all’interno di una Domus.
Pothos ha un corpo snello, nudo e sinuoso, inclinato verso sinistra, in una sensuale e leggera torsione che lo costringe a sorreggersi ad un bastone, il tirso, forse un tempo cinto di edera e pampini, oggi perduti, nascosto sotto il pesante panneggio che dalla spalla cade sull’oca ai suoi piedi. Tutto il peso della scultura è sorretto da questo panneggio le cui pieghe diagonali, seguono l’andamento del corpo di Pothos a sottolinearne l’inconsueta posa.

Pothos

Pothos, II secolo, Centrale Montemartini, Roma

La gamba sinistra è incrociata su quella destra che spinge l’anca verso l’alto, invitandoci a girarle intorno, almeno in parte. L’opera era infatti addossata ad un muro e solo sporgendosi era possibile vedere la parte posteriore, destinata all’ammirazione dei più curiosi.
La testa è piccola e i capelli sono ben definiti; il mento è sollevato e lo sguardo rivolto verso un luogo lontano, che noi non possiamo vedere perché questo momento, intimo e carico di rimpianto e di nostalgia per un essere amato che lo ha lasciato, è solo suo.
Non è facile raffigurare il desiderium amoroso che si prova quando una persona amata, nel senso letterale della parola, è lontana. Ma Skopas con il suo Pothos, dalle fattezze molli di un corpo che si appoggia, abbandonato per non cadere, con lo sguardo perso e sollevato insieme alle spalle e alla braccia nella direzione dell’amato, ci riesce benissimo.
E quel piede destro che spinge, uscendo dalla base, mentre tutto il corpo è rivolto verso una meta apparentemente indistinguibile, lascia nei nostri occhi solo un leggerissimo velo di illusione.

Tratto da “Roma con i miei occhi” di Claudia Viggiani, edito da Palombi nel 2018.