di Claudia Viggiani
Nel 1690 uscì a Roma la prima parte della più importante delle opere scritte da Giovanni Ciampini, il Vetera monimenta in quibus praecipue musiva opera sacrarum, profanarumque aedium structura, ac nonnulli antiqui ritus, dissertationibus, iconibusque illustrantur, dedicato al pontefice Alessandro VII Chigi.
Il secondo volume fu invece pubblicato con lo stesso titolo dopo la morte dell’autore avvenuta nel 1698 a Roma, città nella quale era nato nel 1633.
Nel capitolo 10, intitolato “De Musivorum operum origine, nominibus, et speciebus”, dedicato all’opus tessellatum e all’opus sectile, Ciampini pubblica due stampe che testimoniano l’esistenza a Roma di alcune opere musive minute, realizzate, secondo lui, in tempi molto antichi e conservate in diverse chiese romane.
I due mosaici, oggetto di questo studio, furono definiti da Ciampini “vermicolatum opus”, ovvero opere compiute con una tecnica attraverso la quale le tessere molto piccole vengono accostate fittamente fino a ottenere straordinari effetti pittorici[1].
Il primo mosaico viene menzionato da Ciampini nella Chiesa di Sant’Alessio all’Aventino, dove egli ricorda che esso era “un tempo disteso sul pavimento” mentre “ora è affisso all’inizio della parete destra entrando in chiesa” (Figura 1).
La seconda opera fu invece vista sul pilastro che sosteneva l’arco trionfale della Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma (Figura 2).
Le due opere sembrano appartenere a un medesimo ciclo realizzato molto probabilmente per il pavimento della Chiesa dei Santi Bonifacio e Alessio all’Aventino anche se per motivi ancora sconosciuti, furono visti dallo studioso in due chiese diverse, non troppo lontane l’una dall’altra.
I mosaici, copiati dal Ciampini e quindi disegnati a monocromo con un tratteggio che simula le tessere, presentano le medesime caratteristiche compositive e raffigurano luoghi ed edifici molto simili tra loro.
Il primo disegno sembra raffigurare il rientro a Roma di sant’Alessio, così come narrato nelle varie stesure della sua storia, più o meno leggendaria, tramandataci nei secoli passati, a partire dal V secolo.
I riquadri musivi rappresentano nella parte alta un colle di Roma, molto probabilmente l’Aventino, visto che nella parte inferiore è raffigurato un fiume, verosimilmente il Tevere che sfocia poi nel mare.
In alto si vedono alcuni alberi e due colonne romane, con capitelli apparentemente corinzi, che sostengono una trabeazione.
In entrambi i mosaici si vede inoltre un muro di cinta oltre il quale si innalzano alcuni edifici, rassomiglianti tra loro.
Nella Figura 1 si vede a sinistra, il proprietario della casa, che esce per accogliere un pellegrino che sopraggiunge, con il suo bastone arcuato, mentre un altro uomo è seduto sul bordo della recinzione.
Nella Figura 2 due uomini escono a cavallo.
Nella parte inferiore dei riquadri le scene presentano entrambe alcune imbarcazioni, diverse tra di loro: nella Figura 1 le vele non sono spiegate e un uomo, con un bastone e un cappello, sembra indicare la strada al barcaiolo.
Nella Figura 2 l’imbarcazione più grande ha le vele gonfie e quattro uomini a bordo, intenti a compiere alcune azioni. Nella barca piccola si vedono invece due pescatori mentre raccolgono la rete, in un mare ricco di pesci.
A destra, un pellegrino si allontana con il bordone al quale è appesa una zucca per l’acqua o una fiaschetta.
È alquanto verosimile che i riquadri – giunti sino a noi solo attraverso i disegni del Ciampini – fossero parte della pavimentazione della Chiesa dei Santi Bonifacio e Alessio e illustrassero scene della vita di sant’Alessio.
Purtroppo le due stampe monocrome non ci forniscono ulteriori indicazioni sullo stile dei mosaici originari che molto probabilmente erano invece policromi. Essi furono realizzati con tessere minutissime di forma varia, in grado di adattarsi al meglio al disegno della figurazione. Alcune di loro seguono linee curve complesse, mentre altre definiscono i dettagli, come le foglie degli alberi, che presumibilmente conferivano ai mosaici un aspetto pittorico di grande effetto.
La vita di Alessio, romano, figlio del senatore Eufemiano, ebbe inizio nella casa del padre, sul colle Aventino di Roma, dove egli crebbe e visse lussuosamente, fino al giorno del suo sposalizio con una giovane del suo stesso lignaggio.
Secondo Norberto Caimi, monaco dell’Ordine di San Girolamo, che scrisse la “Vita di Sant’Alessio Patrizio Romano” (prima edizione 1772; seconda edizione 1822), Alessio, il giorno successivo al matrimonio, prese “il cammino, che guida al mare, seco menando uno dei suoi famigliari il più confidente. Arrivato al porto palesò a questo il suo pensiero, che era di subito partire di là. Cercava il famigliare a tutta sua possa dissuaderlo, con mettergli davanti il grave disordine, che era per succedere in sua casa per siffatta partenza. Fu inutile qualunque ragione per distogliere Alessio dal suo fermo proposito: non valse il fargli presente l’amore del Padre, la tenerezza della Madre, l’obbligo del Figlio, il dovere di Marito, non il dolore della intera famiglia, non l’universale commovimento per cotal fuga. In fine veggendo Alessio, che il Famiglio si affaticava tuttavia con gagliarde istanze, e per sino con le lagrime impedirnelo, fingendo accordargli quanto ei voleva, preso un pretesto, scossosti alquanto da lui. Tosto ch’egli si vide sottratto alla di lui vista, avvicinandosi al porto, trovò per avventura una nave, che stava sul far vela; e in quella disceso col favore dei venti portossi in Siria.”
La storia di Alessio continua in Siria, poi in Laodicea e infine di nuovo a Roma dove tornò suo malgrado, a causa di una tempesta che invece di portarlo a Tarso, lo condusse nella sua città e finalmente nella dimora del padre che non lo riconobbe ma al quale, sempre secondo Caimi, egli chiese di concedergli, in qualità di pellegrino, di vivere in un “luogo nell’ampio recinto” della sua casa.
Alessio fu così accolto nell’abitazione paterna nella quale visse, in assoluto anonimato, per diciassette anni sotto una scala, fino al giorno della sua morte.
Svelata solo in quel momento la sua vera identità, Alessio fu sepolto nella chiesa che, nel frattempo, era stata costruita nei pressi della casa patena.
È verosimile quindi che i mosaici in opus vermicolatum visti da Giovanni Ciampini e da lui copiati per essere stampati alla fine del Seicento nel suo testo Vetera monimenta, altro non siano che due porzioni del pavimento della chiesa aventinese, sopravvissute nei secoli, nonostante l’usura e le distruzioni perpetrate nei secoli all’interno del luogo di culto. Il pavimento doveva essere certamente molto danneggiato all’epoca del distacco degli unici frammenti che si potevano ancora “vedere”, quando qualcuno decise di salvarli, trasformandoli in quadri che furono appesi sui muri delle due chiese nelle quali Ciampini li vide.
È infine possibile avanzare l’ipotesi che la storia di Alessio fosse rappresentata nel mosaico pavimentale a fasce raffigurate, non separate da cornici e che quindi si “leggesse” prima la fascia inferiore, in senso orizzontale, e poi la fascia superiore, sempre in senso orizzontale, o viceversa.
Le strisce, limitate in alto dalle mura della proprietà aventinese, potevano così essere viste come le illustrazioni di alcuni manoscritti antichi, forse dedicati allo stesso Alessio, e dai quali plausibilmente le immagini stesse derivano.
[1] G.G. Ciampini, Vetera Monimenta, Vol. 1, cap. 10, Tav. 32, Roma 1690-1699.