di Claudia Viggiani

La grande statua raffigurante la Personificazione del Nilo si trova nell’esedra del Braccio Nuovo dei Musei Vaticani, riaperto al pubblico da pochi mesi, dopo un delicato e imponente restauro durato, complessivamente, sette anni.

Nilo

Braccio Nuovo, Musei Vaticani

La lunga galleria, realizzata per papa Pio VII Chiaramonti da Raffaele Stern e da Pasquale Belli che seguì i lavori fino all’inaugurazione nel 1822, è una delle più significative testimonianze dell’architettura neoclassica a Roma ed è situata tra il Museo Chiaramonti e la Biblioteca Apostolica. Essa presenta nelle nicchie e sulla volta le cromie originali che i restauratori hanno ripristinato per mantenere viva la memoria dell’eleganza e dello stile al tempo di Antonio Canova. Il famoso scultore, già “ispettore generale di tutte le Belle Arti per Roma e lo Stato pontificio, con sovrintendenza ai musei Vaticano e Capitolino e all’Accademia di San Luca”,  aveva del resto lavorato sodo sia per recuperare molte delle sculture rubate da Napoleone tra il 1792 e il 1815, sia per supervisionare la costruzione del nuovo spazio espositivo dei Musei Vaticani dove esporre, insieme ad altre opere, i capolavori statuari restituiti dalla Francia.
I tappeti musivi, composti da tessere lapidee, bianche e nere, sono inseriti nella pavimentazione formata da lastre di marmo rosse, verdi e gialle e spiccano per la luminosità viva e intensa, simile a quella che diffondevano in origine negli ambienti delle dimore imperiali romane dalle quali provengono.
Secondo Bernardo Gamucci, autore del fondamentale testo Libri quattro dell’antichità della città di Roma, raccolte sotto brevità da diversi antichi et moderni scrittori, stampato a Venezia nel 1565 – la colossale statua del Nilo fu rinvenuta nel 1513 nei pressi della Chiesa di Santo Stefano del Cacco in Campo Marzio.

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Maarten van Heemskerck, Veduta cortile delle statue, 1532-1533, disegno a penna bruna, inchiostro acquarellato su carta © The Trustees of the British Museum

La scultura, databile al I-II secolo, è una replica romana di un originale scultoreo alessandrino, realizzato in basalto nero e, secondo Plinio il Vecchio, collocato da Vespasiano nel Tempio della Pace a Roma.
È molto probabile che la statua romana ornasse l’Iseo Campense, il più grande santuario di Roma dedicato al culto di Iside, introdotto a Roma dalle correnti dell’Ellenismo e, più precisamente, dall’Egitto dei faraoni tolemaici.
Trasferita subito dopo la sua scoperta, su richiesta di papa Leone X Medici, nel Cortile del Belvedere in Vaticano,  la Personificazione del Nilo fu ammirata per secoli da numerosi conoscitori, viaggiatori ed estimatori di antichità classiche.
Alcuni artisti, accorsi in Vaticano per studiare le nuove scoperte archeologiche, immortalarono le sculture del Belvedere, con disegni che documentano ancora oggi la loro collocazione originaria all’aperto.

Federico Zuccari, Taddeo Zuccari disegna il Laocoonte nella Corte del Belvedere in Vaticano, circa 1595, J. Paul Getty Museum, Los Angeles © J. Paul Getty Museum

Tra questi, sono particolarmente interessanti la veduta del pittore olandese Maarten van Heemskerck e il disegno del pittore marchigiano Federico Zuccari che raffigurò il fratello Taddeo, anch’egli pittore,  proprio mentre copiava i capolavori presenti nel cortile, tra i quali il celeberrimo Laocoonte.
Il Nilo, rappresentato come divinità benefica, fonte primaria di vita in grado di assicurare, con le sue piene di acqua, regolari e periodiche, il terreno fertile per i raccolti, ha le sembianze di un vecchio disteso su di un fianco.
Sorregge con il braccio sinistro una cornucopia colma di frutti, simbolo per eccellenza di abbondanza e fertilità, mentre con la mano destra tiene alcune spighe di grano che allude al raccolto.
Intorno a lui si muovono 16 putti che personificano, già secondo Filostrato, 16 Pécheis o cubiti di crescita ideale delle sue acque durante la stagione delle inondazioni. Sono raffigurati come piccoli Geni, forse ognuno dell’altezza stessa di un cubito di circa 50 centimetri. E come spiriti che presiedono al destino degli uomini, proteggendone il territorio, interagiscono con il fiume e giocano con un coccodrillo e un icneumone o mangusta, definito da Leonardo da Vinci «mortale nemico all’aspido».
Il Nilo è appoggiato alla sfinge, il mostro con corpo leonino e testa umana, che evoca l’Egitto, terra sulla quale detiene il potere con le sue acque. È la presenza del fiume infatti a rendere abitabile il deserto, creando una fascia fertile di terreno lungo le sue rive: poco più di sei chilometri per ogni lato nel suo punto più ampio, meno di un chilometro in quello più stretto, fino alla grande area del delta.

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Personificazione del Nilo, I-II secolo, Braccio Nuovo, Musei Vaticani

Ed è proprio sul basamento della statua che la storia del Nilo è raccontata: sulla sinistra – e in corrispondenza di tutta la personificazione del fiume – si vedono le sue acque che scorrono innalzandosi sempre di più, così come aumentano e si innalzano i Cubiti soprastanti, per ritirarsi infine e lasciar crescere il raccolto del “granaio del mondo”, visibile sulla destra.
Le acque del Nilo, considerate sacre e per questo raccolte in anfore e portate in processione con gli dei, sono le vere protagoniste di queste allegoria nella quale l’uomo maestoso e barbuto, con il capo coronato di foglie e di frutti di Egitto, è solo un pretesto per ricordare agli uomini che la fonte della vita è la natura stessa con i suoi cicli.
La posa languida del Nilo allude al lento fluire della vasta corrente che sale e scende come i putti intorno a lui. Ad uno solo di essi il vecchio rivolge lo sguardo: è il Cubito più fiero, il più alto, con il quale il dio ha potuto offrire la giusta pienezza e ricchezza d’acqua, rappresentata dal corno pieno di frutti dal quale il putto si erge con orgoglio.

Foto Claudia Viggiani