di Claudia Viggiani
Le vicende della chiesa sono legate alla corporazione dei fabbri ferrai che, nel 1453, ottennero da papa Nicolò V, per farne la loro sede, le due piccole chiese di San Martino e di San Giacomo, “dirutae et totaliter ruinae prostratae”, con le contigue proprietà del disciolto ordine ospedaliero dei cavalieri d’Altopasso. Cresciuto il numero degli aderenti all’Università dei fabbri, e dopo aver espresso il desiderio di potersi costituire confraternita, nel 1561 i fabbri decisero di abbattere le vecchie costruzioni per edificare la nuova chiesa che, conclusa l’anno seguente, fu intitolata a Giacomo, Martino e Eligio, protettore degli orafi, chiamato popolarmente anche sant’Alò, per corruzione del nome francese Eloy.
I lavori per l’erezione del nuovo edificio furono affidati a due semplici muratori, Giovanni Alberto de Galvanis e Battista Olivieri, coadiuvati, per gli interventi di muratura, dallo scalpellino Battista Pietrasanti. Come altre chiese corporative, Sant’Eligio fu realizzata a navata unica, con piccola abside, facciata con portale fiancheggiato da lesene, tetto a spioventi e campanile a vela. L’interno era scarno e le semplici pareti prive di mense. Solo l’abside e l’altare maggiore risultavano decorato nel 1563 da Girolamo Siciolante da Sermoneta. Tra il 1562 e il 1613 alcune corporazioni di artigiani aderenti alla Confraternita, finalmente istituita con bolla di Gregorio XIII nel 1575, “con facoltà di farne Statuto”, fecero realizzare i primi altari laterali, in legno e stucco, dedicati alla Sacra Famiglia, a Sant’Orsola, al Santissimo Crocifisso e a San Francesco. Nel 1577 la compagnia dei fabbri decide di “fare l’oratorio ladove ogi è la sachrastia de la nostra giesa”.
Nel 1621 fu realizzato l’altare di Sant’Antonio e, tra il 1639 e il 1642, per ampliare la cappella maggiore, che fu così dotata di un nuovo altare realizzato dallo scalpellino Domenico Marcone, con la supervisione di Francesco Peparelli, si distrussero gli affreschi di Girolamo Siciolante da Sermoneta. Negli stessi anni anche gli altari laterali furono abbelliti ad opera delle corporazioni dei lavoranti dei metalli.
Dalla fine del Seicento e per circa un secolo, l’edificio subì altri, numerosi restauri e interventi decorativi che definirono l’aspetto attuale della chiesa.
Nel 1696 accanto alla chiesa di Sant’Eligio, la confraternita fece erigere un piccolo ospedale che, con alterne vicende, ebbe vita fino al 1822.
Nel 1726 i chiodaroli eressero il loro altare, dopo una lunga vertenza con i chiavari; nel 1755, l’architetto Gaetano Fabrizi progettò la nuova decorazione dell’arcone del presbiterio e incaricò Giacinto Ferrari di compiere gli stucchi dorati.
Nel 1827 il nuovo altare appartenente alla corporazione degli spadari fu realizzato su disegno di Giuseppe Valadier.
Nel 1903 la chiesa fu chiusa per restauri e riaperta nel 1905.
Negli anni 1963-64 un ulteriore intervento di manutenzione si rese necessario sulla facciata, in seguito agli sventramenti effettuati nel 1939 per mettere in comunicazione la via del Mare con la via dei Fori imperiali.
La confraternita, riconosciuta Arciconfraternita nel gennaio 2005, è tuttora in attività e mantiene la sede nella stessa struttura architettonica.
La facciata, frutto dei restauri compiuti tra il 1903 e il 1905, riproduce fedelmente le forme della facciata cinquecentesca, compiuta in muratura, con doppie lesene laterali. La base è in travertino come la cornice del portale che presenta in alto l’iscrizione universitatis fabrorum. Sopra il timpano triangolare è la nicchia con il busto di sant’Eligio in peperino, compiuto nel 1644 per essere posto sopra la porta dei granai e dell’oratorio e qui collocato nel 1905. L’ampia finestra ad arco, in origine circolare, come si può vedere dalla pianta Maggi-Maupin-Losi del 1625, è stata molto probabilmente realizzata nel 1731 quando fu installato l’organo sulla controfacciata. La facciata si conclude con un timpano triangolare. Fino al 1940 una cancellata in ferro battuto, eseguita dal confratello Giovanni De Petris su disegno di Carlo Busiri Vici, serviva da recinzione della gradinata esterna. Sul muro a sinistra della facciata si trova un portale con finestrone sormontato dall’incudine e dal martello, emblemi dello stemma dell’arciconfraternita. Al civico n. 9, sopra il portale, sono visibili l’iscrizione domus/societatis s. eligii/universitatis/fabrorum de urbe e lo stemma della compagnia. Il campanile a vela, in travertino, con colonnine ioniche, fu realizzato dallo scalpellino Gioacchino Pizzicheria su disegno di Giuseppe Reimbaldi nel 1882 e inaugurato l’anno seguente alla presenza della principessa Sofia Odescalchi che diede alla nuova campana il nome “Anna Maria”.
L’interno della chiesa, decorata con marmi vari e sfarzosi, è a navata unica, con tre altari a nicchia sui fianchi. Ai lati dell’arcone absidale si affacciano due coretti-reliquiario in stile barocco, commissionati dall’Università dei chiavari nel 1711.
Il soffitto a lacunari, datato 1604, presenta decorazioni vegetali e al centro lo stemma della confraternita e l’iscrizione universit/atis / fabrorum /anno/domini/MDCIIII.
Sulla controfacciata è presente la cantoria, costruita nel 1690 “dall’università dei giovani e lavoranti de’ chiavari in Roma” come ricorda l’iscrizione sul comparto centrale.
Il primo altare a destra, dedicato a sant’Antonio abate, fu concesso all’Università dei marescalchi, prestacavalli e veterinari nel 1621, anno in cui l’università fu annessa a quella dei Ferrari, ottenendo un altare per le celebrazioni liturgiche: realizzato alla fine dello stesso anno, fu ricostruito a partire dal 1730, come documenta l’iscrizione sul cartiglio al centro dell’arco. Nel 1736 l’altare fu consacrato, anche se i lavori di rifinitura si conclusero solo dopo il 1745. La struttura architettonica dell’altare, inquadrato da un arco a tutto sesto, sostenuto da pilastri in marmo brecciato e colonne in rosso di Linguadoca, è, per la preziosa decorazione, tra le più belle della chiesa. I capitelli, in marmo bianco di Carrara, sorreggono una cornice mistilinea sulla quale è impostato un timpano dalla linea ondulata. Entro la nicchia, rivestita di paonazzetto, è collocata una statua lignea policroma, raffigurante Sant’Antonio abate, nato verso il 251 a Coma, in Egitto, protettore dell’Università dei marescalchi. La scultura con il monaco, rappresentato con lunga barba e avvolto in ampio panneggio nero, è stata realizzata tra il 1622 e il 1626 da un autore ignoto. Nel sottarco della cappella sono affrescati episodi della Vita di sant’Antonio risalenti anch’essi al secondo decennio del Seicento. Negli anni 1903-05 l’altare è stato restaurato.
Il successivo altare, eretto nel 1588 per la “compagnia dei lavoranti e garzoni dei ferrari” e rinnovato nel 1726, fu concesso all’Università dei chiodaroli il 20 giugno del 1775. Del primitivo altare, di modesta fattura, si conserva solo la tela raffigurante la Sacra famiglia e san Giovannino, di autore ignoto, vicino alla maniera dei pittori fiamminghi, attivi a Roma nella seconda metà del Cinquecento.
I dipinti del sottarco con storie della Vita di Gesù risalgono alla prima metà del Seicento e hanno subito notevoli ridipinture. Nel 1794 fu realizzato il pavimento sotto l’altare.
Il terzo altare a destra è stato eretto dall’Università dei ferracocchi tra il 1723 e il 1748 su un preesistente e modesto altare tardo cinquecentesco.
L’affresco visibile sul muro di fondo è emerso in occasione dei restauri che nel 1990 hanno consentito la rimozione della tela raffigurante la Morte di San Francesco d’Assisi, ora nell’oratorio. Il dipinto, forse parte di un più esteso ciclo pittorico, raffigura un episodio della Salita al Calvario ed è probabilmente opera di un artista fiammingo attivo a Roma tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, nell’ambito della pittura di Controriforma. Sopra l’altare si conservano due frammenti della cassetta lignea utilizzata per trasportare nella basilica di San Pietro la reliquia del sudario con il quale, secondo la tradizione, Veronica asciugò il volto di Cristo durante la sua salita al Calvario. I frammenti, ricordati già dal 1597, nel 1629 erano collocati sull’altare del Crocifisso. La tavoletta più piccola è decorata, al centro, da una placca quadrangolare, con cornice rossa e iscrizione salve sancta facies nostri salvatoris pro nobis sputis et elapis caesa. Eseguita molto probabilmente alla fine del Quattrocento essa raffigura Santa Veronica con il sudario di Cristo. Ai lati della placca, sono collocati due piccoli medaglioni con smalti Champlevé raffiguranti Vescovi entro cornici quadrilobate e traforate a ricami con animali fantastici. Le placchette sono affini a quelle, con fondo turchino, prodotte nelle botteghe orafe di Limoges nella prima metà del Duecento. Nel sottarco le storie della Vita di San Francesco, anche se presentano numerose ridipinture, sono databili alla prima metà del Seicento.
Prima del presbiterio, sulla destra è esposta una statua in legno policromo rappresentante Sant’Eligio vescovo, riferibile alla seconda metà del Quattrocento .
La tribuna absidale ha forma semicircolare e copertura a volta ornata di stucchi con motivi vegetali. Al centro dell’arco maggiore è la Gloria dello Spirito Santo. La parte superiore dell’altare in marmo portasanta, eseguita su disegno di Giovanni Battista Mola, è del 1640: l’iscrizione indica l’anno della sua costruzione. Il paliotto in alabastro, realizzato su disegno di Ferdinando Poletti, risale al 1727 e gli ornati in metallo, dono del confratello Domenico Annibaldi, al 1794.
Le tre finestre con vetri policromi presentano lo stemma della compagnia. La tribuna, ricostruita tra il 1561 e il 1562, fu decorata da Girolamo Siciolante da Sermoneta che nel 1563 portò a compimento gli affreschi, distrutti durante gli interventi secenteschi. Lo stesso artista realizzò la pala d’altare, raffigurante.
Il dipinto, olio su tavola, è stato compiuto dal Sermoneta nel 1564, anno in cui è datata una nota di pagamento a “mastro spinetto falegname alla Sapientia” per la cornice dell’altare maggiore. L’opera, il cui impianto deriva dalla pala di San Martino Maggiore a Bologna, datata 1548, presenta un’inconsueta iconografia che mette in risalto, rispettando gli ideali di rinnovamento spirituale e dottrinale dell’epoca, la figura del povero e l’importanza dell’elemosina come massima opera di carità cristiana. La tribuna fu ulteriormente trasformata negli anni 1755-58 e tra il 1793 e il 1794, quando fu messa in opera la nuova pavimentazione.
Un bel Crocifisso ligneo del Settecento, un tempo conservato in sagrestia, è ora esposto nella cappella maggiore.
Il terzo altare a sinistra, di cui si hanno notizie dal 1588, come “altare delle donne” è stato consacrato nel 1736 a spese dell’Università degli spadari. Dedicato al Crocifisso, l’altare è stato demolito e rinnovato nel 1827 su disegno di Giuseppe Valadier. Della decorazione originaria è rimasta solo la pala d’altare con la Crocifissione di Cristo, risalente al 1599. Il dipinto riprende l’analogo quadro compiuto da Scipione Pulzone, entro il 1586, per la Cappella Vettori nella chiesa romana di Santa Maria in Vallicella. Ai lati del paliotto sono visibili due spade incrociate, simbolo dell’Università. Sotto l’arco sono rappresentate storie della Leggenda della vera croce riferibili al Seicento nonostante le pesanti ridipinture.
Le più antiche notizie riguardanti il secondo altare a sinistra, dedicato a Sant’Orsola, risalgono al 1591. Rinnovato dall’Università dei Calderari nel 1764, l’altare è stato realizzato con materiali pregiati che ne esaltano l’armoniosa struttura architettonica composta da colonne e pilastri in marmo verde antico e capitelli corinzi bianchi. In alto, sulla trabeazione mistilinea, si eleva un timpano spezzato in marmo giallo antico.
La pala d’altare che raffigura il Martirio di Sant’Orsola, è datata 1764 e firmata in basso a destra da Ambrogio Mattei, pittore sconosciuto. Il dipinto che raffigura, secondo la leggenda, la santa nel momento in cui venne massacrata insieme a undicimila compagne a Colonia, fu commissionato da Francesco Martini per sostituire il quadro ad olio, “fatto nell’età di anni dodici dal celebre Giovanni Vannini”, andato distrutto durante un incendio. Nel sottarco sono affrescate alcune storie della Vita di Sant’Orsola databili alla prima metà del Seicento.
Il primo altare a sinistra appartiene, dal 1725, all’Università dei giovani lavoranti dei chiavari, le cui insegne sono visibili sul paliotto. Tra i più ricchi della chiesa, l’altare presenta preziose colonne in diaspro, addossate a lesene in alabastro, coronate da capitelli compositi sui quali poggia il timpano in paonazzetto. Il paliotto d’altare anch’esso in alabastro, è ornato da pilastrini in paonazzetto, ornati con foglie d’acanto in marmo giallo antico. Sulla parete di fondo, ai lati delle colonne sono presenti due iscrizioni marmoree che ricordano le decisioni prese dai cardinali Cybo e Rezzonico sulla controversia intercorsa tra l’Università dei chiavari e l’Università dei chiodaroli circa il possesso dell’altare dedicato alla Sacra Famiglia. La pala d’altare, dipinta tra il 1725 e il 1748, raffigura il santo patrono dei giovani chiavari vissuto nel IV secolo, Sant’Ampelio curato dagli Angeli. La tela, di ignoto pittore, servì successivamente da modello per la realizzazione dello stendardo dell’arciconfraternita, ora nel museo, compiuto dal pittore lucchese Pompeo Batoni.
Tra i locali annessi alla chiesa è l’Oratorio, a pianta rettangolare con soffitto ligneo a piccoli lacunari, eretto tra il 1577 e il 1588 sul lato sinistro della chiesa. Gli stalli del coro, in legno con semplice cornice modanata, risalgono all’Ottocento e al Novecento. L’altare è stato realizzato nel 1777 con i contributi dell’arte dei chiodaroli. Sulla parete destra è conservato il dipinto raffigurante Sant’Eligio vescovo, attribuibile a un pittore di cultura tardo manierista, attivo a Roma alla fine del Cinquecento o al principio del secolo successivo, nell’ambito della cerchia di Giovanni De Vecchi.
Ai lati dell’altare sono collocati i due dipinti ovali commissionati nel 1777 dai chiodaroli e raffiguranti Sant’Eligio libera un’indemoniata e San Martino e il povero.
Sulla parete sinistra è esposta la tela con il Transito di San Francesco, un tempo collocata sul terzo altare a destra nella chiesa. L’opera, di autore ignoto, donata nel 1777 dall’Università dei ferracocchi in sostituzione di un quadro dallo stesso soggetto, già menzionato nel 1600 e andato perduto, riecheggia moduli di temperato classicismo di matrice barocca romana, legata alla scuola marattesca.
Nel Lapidarium si conservano lapidi e iscrizioni tra le quali una del 1562 che attesta la costruzione della nuova chiesa e un’altra del 1575 che ricorda il “Breve” con il quale papa Gregorio XIII concesse l’erezione della Compagnia dei fabbri ferrari. Un’ulteriore importante iscrizione testimonia l’avvenuta ricostruzione della chiesa nel 1621. Una lapide, con teschio e ossa decussate, è stata collocata sul pavimento nel 1724, in corrispondenza della cappella funeraria sottostante.
La Sala delle iscrizioni, già atrio, presenta al centro della volta un affresco con Sant’Eligio in gloria, di autore ignoto, commissionato nel 1669 da Ferrante Guiscardo, provveditore della confraternita. Ai lati dell’affresco e sulle pareti sono state dipinte, dal Settecento sino a oggi, numerose iscrizioni a carattere documentario e storico, relative a donazioni e lasciti di confratelli. Nella sala è esposto lo stendardo donato nel 1725 dai chiodaroli alla confraternita. Compiuto da artista attivo nell’ambito della tradizione marattesca, esso raffigura sul recto Madonna con Bambino e sul verso Cristo tra Angeli.
Nel piccolo Museo, entro vetrine, si conservano oggetti dell’arredo liturgico, parati nobili, pianete e reliquiari tra i quali un braccio in argento, ottone e pietre semipreziose contenente la reliquia donata dalla cattedrale di Noyon nel 1619. Nella sala sono inoltre esposti un apparato per le Quarantore, realizzato nel 1770, e il celebre stendardo dipinto da Pompeo Batoni, verso il 1750 per i Chiavari. Esso rappresenta sul recto l’Apparizione della Vergine con il Bambino a Sant’Eligio e sul verso la Visione di Sant’Ampelio curato dagli Angeli, soggetto quest’ultimo imposto dai chiavari che vollero ripreso il tema della loro pala d’altare. Il nome dell’artista e del governatore che commissionò l’opera sono visibili in basso a sinistra.